Quanto un medico deve essere coinvolto nel rapporto con i suoi pazienti?

Ricevo questa interessante domanda da Diletta (medico sempre in divenire come le piace definirsi) e con piacere immenso rispondo:

Nella mia personale esperienza il coinvolgimento col paziente è totale, nel senso che la mia disponibilità e la mia presenza sono pressoché continue, soprattutto nei momenti più difficili, in pazienti terminali o nella presa di coscienza di una malattia cronica più o meno grave.

Il coinvolgimento, però, deve essere, secondo me, paragonabile al patto narrativo che si fa con l’autore quando si legge un libro: si soffre con il personaggio, si empatizza fino a sentire il suo dolore e lo si condivide con la famiglia consolandola, prendendosi le responsabilità, ma poi così come il libro giunge alla quarta di copertina, così il rapporto si chiude; perché nonostante tutto il medico non è una persona di famiglia e il dolore è qualcosa che va lasciato decantare e perché nel cuore c’è posto solo per un po’ di sofferenza e il posto deve essere lasciato a un altro caso.

Quando mi sono trovata ai funerali dei miei pazienti, mi sono scoperta realmente ferita per la loro perdita, un misto di senso di colpa e di inadeguatezza, ma quel dolore mi fa sentire viva e orgogliosa di come svolgo il mio lavoro.

Un volta a casa, però, quel dolore deve svanire e cerco di ricordarmi che è un mezzo per capire i pazienti, per curarli al meglio, per far sentire loro unici tra tutti gli altri, ma non deve mai e poi mai diventare un killer silenzioso che assassina la mia passione.

2 Risposte a “Quanto un medico deve essere coinvolto nel rapporto con i suoi pazienti?”

  1. ..grazie di condividere le tue esperienze..mi arricchiscono sempre, ma ti dirò, non ne dubitavo per questo avevo bisogno della tua voce.
    Orgogliosa di esserti amica.

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